Page 29 - GIAMPAOLO TALANI
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Ombra rossa









                     Si vede bene questo in Musicisti blu del 2005 dove la musica c’è, suonata da un musicista, di spalle, per
                     due figure in ascolto. Non è più, certo, il movimento un po’ disordinato e affollato di Animali di battigia né,
                     d’altronde, il silenzio del gruppo di Musicisti nello studio del pittore. E’, altresì, l’indicazione esatta di quella
                     Quarta Nobile Verità, di quel sentiero di cui l’artista ha iniziato il cammino nell’opera Finisterrae. Quel sentiero è
                     una via di mezzo, un percorso di equilibrio consapevole, in cui c’è ascolto della musica e comprensione, ritmo
                     ma anche immobilità, invito ad abbandonare ogni eccesso.
                     Talani ci invita alla meditazione, alla sostanziale comprensione dell’inconsistenza del mondo fenomenico, della
                     vanità del desiderio, della vacuità dell’esperienza sensibile.
                     E’ a questo eterno, a tratti insensato, movimento della natura e della vita, che Talani oppone la forza dei suoi
                     rossi, la vigoria degli ocra, la timidezza dolce degli azzurri dei cieli, inventando mondi, creando paragoni,
                     osando irriverenze come in una delle ultime opere Arrivo a Finisterre del 2013 dove quel Sentiero di mezzo,
                     quella ricerca di equilibrio e equanimità va, se non a concludersi, sicuramente a precisarsi in maniera ormai
                     molto dettagliata. L’artista è su alcuni scogli, posata accanto a lui una valigia rossa e rossa è la cravatta che
                     sventola verso destra sospinta da un vento che, per tutta la vita dell’ artista, non ha mai cessato di soffiare.
                     La figura è frontale, le mani in tasca ma lontana, in una sorta di piano panoramico che ne dà un’idea generale
                     e non permette di leggerne completamente l’espressione. Dietro di essa un immenso sole ocra/arancione, un
                     sole caldo ma frammentato, espressionistico che, del resto, così immenso, splende, in quel momento, solo
                     per lui. Perché nel titolo del quadro vi è la parola Arrivo? Arrivo alla fine della terra, una sorta di contraddizione.
                     Eppure, in effetti, è proprio la parola giusta e che di arrivo si tratta è visibile nella sciolta postura del corpo
                     del protagonista raffigurato, nella valigia  poggiata sugli scogli in una maniera che non è di partenza, nei
                     raggi circolari del sole che chiudono tutto l’universo dentro la dimensione del tutto conclusa di quelle mani
                     sprofondate nelle tasche che, appunto, sono tipiche di chi è appena arrivato. La strada è stata trovata, la
                     sofferenza è stata sconfitta e quanto sono lontani i giorni di vento impetuosi che agitavano i capelli di Ery
                     sul litorale e quanto sembra quasi appartenere ad un altro la sottile malinconia della musica già suonata nel
                     quadro dei musicisti. Qui tutto è certezza: certezza che l’unica fuga dalla sofferenza, dal dolore, dall’ineluttabile
                     movimento dell’esistenza è l’accettazione, la serena contemplazione, il riconoscimento delle potenti leggi
                     naturali cui anche l’uomo deve sottomettersi. Il mare in tutto questo c’entra poco, steso oltre gli scogli, distesa
                     di cui se ne può intuire la presenza ma a cui il protagonista, in un certo senso, ora volta le spalle. Il paesaggio
                     che ha trovato è assai più vasto, più insondabile, più profondo del mare.


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                                                                                                                  Gangtok, 2013

































 Tav. XX                                                                                                                         27
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